• Lunedì 19 Febbraio 2024
  • 16:15 - 16:45
  • Memo
  • Beer&Tech Arena - Pad. A7/C7
  • a cura di Cooperativa Italiana Catering
  • Roberto Santarelli Tuttopress Editrice s.r.l.
  • Manola Scomparin Cooperativa Italiana Catering

Nel libro di Byung-Chulhan, intitolato “Le non cose”, l'ex professore tedesco di Filosofia e Studi culturali riflette sul fatto che le informazioni sovrastano le cose facendole sbiadire. In quest’era digitale stiamo assistendo al dominio dell’informazione e derealizzazione del mondo. Le drammatiche conseguenze sono due:

  • “Noi non abbiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il cloud”. Ma le cose sono fondamentali per gli uomini. Definiscono lo spazio, l’orientamento, la memoria, la storia. Sono i punti fermi dell’esistenza.
  • La solitudine. Nell’era digitale l’uomo è solo, lontano dall’altro e dagli altri.

La cultura nasce dall’abbandono del paradigma azione/reazione. Se mangiare è un bisogno individuale, abbiamo bisogno degli altri per mangiare (chi coltiva, chi pesca, ecc.). Anche se mangiamo soli, mangiare è un fattore di comunità. Mangiare è un fattore accomunante.

Nell’Odissea si dice dei Ciclopi che non assomigliano a gente che mangia pane. A non mangiare pane sono i barbari.

Il passaggio dalla natura alla cultura avviene con il passaggio alla cultura cerealicola. Coltura e cultura hanno la stessa radice, colere, cioè abitare, stare attorno a qualcosa. Nello stare attorno alle cose l’uomo le coltiva e capisce cosa se ne può fare del luogo. Cultura come accettazione del limite e dell’altro. Ma nel girare attorno si genera anche tradizione, trasferimento di qualcosa all’altro. Ma ha insito anche il tradimento: nell’apprendimento si fa proprio e si aggiunge innovazione alla tradizione. Tradizione non come linea continua, ma fatta di tradimenti che si assestano. Cultura ha anche come radice cullus, curare. La coltivazione è il presidio del processo di crescita del prodotto, ma anche della sua cura.

Le civiltà, e gli individui, vivono in tempi diversi e coltivano in modo diverso. Siamo in cammino nella cultura.

Il consumo del cibo ha elementi comunitari. Mangiare in comunità è essere sicuri. Mettersi in cerchio così tutti vedono alle spalle, protezione a vicenda. Mangiare assieme agli elementi del clan per evitare di essere uccisi.

Il pane simboleggia la comunità che si raccoglie attorno al pane. Noi mangiamo la stessa cosa e quindi entriamo in comunità. Gli alimenti ci permettono di comunicare a livello sciale. Cibarsi dello stesso cibo fa nascere la dimensione comunitaria.

È fondamentale comprendere che una persona è sempre nuova, che si può scoprire sempre. La vera identità è nella differenza con l’altro. Questo si ritrova a tavola nel confronto, un confronto costruttivo che avviene condividendo del cibo.

Checché la conoscenza sia un viaggio dal noto all’ignoto. Nella nostra cultura occidentale abbiamo sempre affidato alla vista il primato sugli altri sensi e alla bellezza la trascendenza. La bellezza è bella in sé stessa. Eppure esiste la sindrome di Stendhal: la bellezza può far stare male. Quindi anche la bellezza produce qualcosa in noi che è altra dalla cosa stessa. Ma allora anche l’arte ha a che fare con il benessere o malessere come il cibo. E anche il cibo ha in sé un fattore estetico: quando lo mangiamo e ci lascia senza parole, come un’opera d’arte.

Quindi l’idea che la bontà non è mai data dalla cosa in sé stessa, ma dal suo scopo, ovvero dalla capacità di produrre il bene (alla salute, alle papille) è limitata. Non è solo il fine l’unico parametro che ci consente di giudicare bene una cosa.

Coì pane e vino diventano anche gli elementi in cui la divinità si incontra e tramite cui l’uomo si fonde con il divino. Una forma di ascesi.

Sapere e sapore hanno la stessa ridice. Saper meditare su ciò che si sta gustando.

Il cuoco diventa un artista quando riesce a sorprenderci con il suo piatto andando oltre la semplice esecuzione di una ricetta. Il cuoco esalta l’elemento sensibile in un piatto che è una nuova realtà senza soffocare le differenze, i vari sapori. Gli elementi si devono riconoscere nella unità (dialettica pura). Dove l’artista non conta nulla, non mi aspetto niente. Se vado da un cuoco, non vado per soddisfare un bisogno, ma per essere sorpreso, come di fronte ad un’opera d’arte. Come il panino del Mc Donald privo di caratterizzazione.

E ancora Proust, in Alla ricerca del tempo perduto, ci insegna che attraverso il cibo possiamo ritrovare noi stessi.  Spiega così il motivo per cui assaggiando la madeleine prova una gioia immensa. Ma la sensazione non è nella madeleine. La madeleine ha la capacità di risvegliare attraverso il gusto la memoria involontaria che porta oltre la razionalità e attiva la capacità di creare sensazioni e ricordi perduti. Attraverso l’esperienza di degustazione ritroviamo qualcosa di noi stessi.

“L’uomo mangia ciò che è” ovvero coerentemente al modo in cui esiste, del suo modo di vivere il mondo e nel mondo. Siamo abitanti di un certo luogo e di una certa cultura. Mangiando ci denudiamo scopriamo noi stessi agli altri e scopriamo gli altri.

Un netto rovesciamento della posizione di Feuerbach “L’uomo è ciò che mangia”, l’uomo non è pensiero, ma fisicità, ponendo l’essere sul suo atto fisico del mangiare. “Iss wass eri st”.